Il termine digitale è sempre più ricorrente nel linguaggio della finanza e del mondo bancario, non sempre nell’interpretazione più corretta. Per chiarezza riprendiamo la definizione riportata nella Enciclopedia Treccani: “un modello economico basato sulla valorizzazione delle tecnologie informatiche come infrastruttura ideale per gli scambi economici e commerciali”.

Per i suoi effetti, la dizione è stata spesso associata al termine disruption per enfatizzarne la profondità dei cambiamenti che la digitalizzazione può comportare. Per poter svolgere questa missione la soluzione deve essere assistita da una visione strategica di lungo periodo, tale da attrarre il necessario sostegno del mercato dei capitali.

Più ordinariamente, il termine si riconduce alla radice digit e cioè numero, poiché la tecnica sottostante alle tecnologie informatiche utilizza la matematica e, in particolare, la numerazione binaria.

La pandemia ha indubbiamente accelerato la domanda di servizi digitali. Ha favorito le nuove banche che puntano sulla rivoluzione tecnologica. Non sempre le neo-bank sono riuscite a fronteggiare gli imprevisti di medio-lungo periodo, soprattutto non costruendo un modello di business sostenibile e profittevole. Ciò è richiesto dalle norme del settore bancario, con in relativi oneri e costi. Per affrontarli bisogna ottenere revenues e flussi di cassa ed i servizi non possono essere tutti e a lungo gratuiti. C’è chi offre tutto gratis puntando sulla gestione dei dati dei clienti, ma i big data non sono sufficienti e comportano regole sempre più stringenti e del tutto uguali (salvo la dubbia proporzionalità rispetto a quelle delle banche tradizionali, effettivamente raramente applicata).

Un cliente, oggi, da una banca si attende sicuramente non un servizio completo, tutto incluso, come avveniva in passato. Acquista in prevalenza solo quei servizi che gli interessano e che reputa efficientemente offerti. Molto dipende dal target. Le generazioni più giovani utilizzano soprattutto pagamenti e trasferimenti di denaro tra persone (i cosiddetti peer-to-peer). Man mano che saliamo con l’età, i bisogni cambiano. Gli over-60 utilizzano spesso solo il servizio di pagamento dei bollettini. Il che dimostra che la “ricetta” delle neo-banks sta funzionando e copre esigenze significative.

I punti deboli sono anche punti di forza. Fin dalla nascita, il punto di attacco al mercato è stato l’abbattimento delle barriere all’accesso, cioè le cosiddette procedure di onboarding. Procedure di attivazione che in meno di 24 ore rendono conto corrente e carte di debito o credito attive. Come è facile entrare, allo stesso modo è facile uscire. Acquisire un nuovo cliente è facile quanto perderlo. Avere milioni di clienti non è un obiettivo dato per acquisito. È imperativo lavorare costantemente alla loro retention, sulla scorta di un basso livello di fidelizzazione. Il playing field è palesemente quello comunitario e non quello nazionale.

Dobbiamo anche studiare con attenzione quello che ci ha insegnato la rivoluzione digitale anche in altre industry. Se sei un incumbent, l’arrivo sul mercato di nuovi operatori puoi fronteggiarlo in due modi: o provi a capire dove ci sono spazi di cooperazione, oppure puoi combatterli aggredendone i punti di debolezza e la difficoltà nel gestire il complesso cost/income.

Oggi sul mercato si rimane presenti se sei strutturato nell’offerta e se sei in grado di proporre poche cose, ma fatte bene. Non vi sono più modelli universali dove gli operatori offrono qualsiasi prodotto o servizio. Sul digital banking, quello che è ormai chiaro è che la specializzazione si concentra in particolare sul rapporto digitale con il cliente. Il “rapporto fisico” ne è ormai la necessaria conseguenza, non la storica premessa.

Il rapporto deve per forza seguire linee di cooperazione. Dobbiamo comprendere le specializzazioni offerte e quali sono i punti di eccellenza dell’uno e dell’altro. Se le neo-banks sono abili nella relazione digitale con il cliente, le banche tradizionali hanno dimostrato di saper affrontare meglio fasi di crisi o anche offrire servizi complessi come l’erogazione del credito, la gestione degli investimenti, magari appoggiandosi ad un operatore tradizionale dell’investment banking, magari anch’esso parzialmente digitale. Una sorta di coo-petition che genera un rapporto triangolare win-win-win per i due intermediari e il cliente.

Anche il profilo normativo è, al momento, complessivamente idoneo nei segmenti antiriciclaggio e privacy, mentre si va definendo un primo impianto nell’ambito delle valute digitali peer-to-peer. Sull’adeguatezza delle regole che sapranno interpretare esigenze di tutela e linearità dei relativi processi si giocherà la accettazione del complesso delle innovazioni ormai evidente anche da parte degli operatori tradizionali che dispongono nell’ambito dei loro gruppi di operatori dedicati.

 

Giuseppe G Santorsola
Professore Ordinario di Asset Management,
Corporate Finance e Corporate & Investment Banking
Università Parthenope di Napoli