Il tema dello Smart Working in molte imprese è stato approntato semplicemente per affrontare le necessità indotte dalla pandemia: l’unica soluzione possibile è stata quella di attrezzarsi al meglio per lavorare da casa e poche aziende hanno avuto modo e tempo per ragionare in modo sistematico, per immaginare e costruire cioè una organizzazione basata sullo Smart Working.
Quelle che stanno affrontando questo problema ora si trovano di fronte, tra le altre, due grandi problemi organizzativi sotto il profilo delle strutture e sotto quello delle persone.
Per le strutture, il punto chiave in generale si riassume in un semplice concetto: si tratta il più delle volte di passare da una modalità di lavoro “per compiti” a una modalità “per risultati attesi”. Non è sufficiente parlare di lavoro per obiettivi. I risultati attesi per essere tali debbono essere misurabili e quantificabili mentre gli obiettivi sono spesso indicati in modo generale e qualitativo.
Se si perdona l’eccessiva semplificazione, dobbiamo innanzitutto farci una serie di domande: l’azienda dispone già di un sistema preciso che colleghi risultati attesi e singoli collaboratori, gruppi di lavoro o di progetto? Ha effettuato il passaggio da una mappatura dei processi e delle attività a una mappatura dei risultati attesi? Possiede un sistema di controllo dei risultati attesi, le relative strutture di rilevazione e i sistemi di valutazione per accorgersi di eventuali carenze e inconvenienti per intervenire e ripianificare tempestivamente?
Comunque, un bel lavoro.
Tuttavia, se i problemi riguardanti le strutture organizzative sono complessi, appaiono ancora più complessi quelli attinenti i lavoratori, che peraltro sono coloro che danno vita agli stessi modelli organizzativi e ne decretano il successo o il fallimento pratico. Il change management verso lo smart working, a mio parere, deve avere quindi come fulcro e punto di partenza le indagini psicosociali sui bisogni dei collaboratori.
Occorre infatti, per concretizzare i risultati attesi di ciascuno, partire da un’analisi approfondita delle sue caratteristiche (anche per via documentale) e da indagini basate su questionari svolte con le migliori tecniche di psicologia del lavoro per conoscerne opinioni e tendenze.
Si tratta in buona sostanza di approfondire ad esempio:
- se il livello di competenze hard possedute è sufficiente per un lavoro in autonomia (quale sia insomma il livello di supervisione ottimale per ciascun operatore)
- quale sia il livello di giudizio maturato in merito alle operazioni di auto-pianificazione del proprio lavoro in termini di valutazione delle difficoltà percepite, degli imprevisti possibili e delle loro conseguenze con i possibili rimedi, dei tempi necessari e della pianificazione delle proprie giornate in funzione degli obiettivi
- quale sia il livello di stress in grado di essere tollerato rispetto a risultati da ottenere con maggiore autonomia e di convivenza con i problemi per i quali diminuiscono le possibilità di confronto con capi e colleghi
- quali infine siano le preferenze stesse degli operatori in base al loro modo di vedere il ruolo lavorativo e le modalità di svolgere la loro attività
Affrontare in modo sistematico le scelte in materia di Smart Working richiede quindi tra gli altri problemi, innanzitutto quello di mettere al centro dell’attenzione i collaboratori e di conoscerne ancor meglio caratteristiche e orientamenti attraverso indagini psicosociali basate su questionari peraltro da ripetere periodicamente anche e soprattutto in ragione dell’intensità e della diffusione in azienda di lavori svolti a distanza che, alla lunga, tendono ad attenuare la conoscenza del sentiment dei lavoratori da parte del management dell’impresa.
La vera sfida secondo me, per chi voglia organizzarsi per lo Smart Working sta proprio in questa seconda problematica.
Angelo Pasquarella
Presidente Projectland
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