Il tema delle competenze non cognitive era tornato centrale a gennaio 2022, quando alla Camera dei deputati venne presentata una proposta di legge per introdurre le soft skills nei percorsi scolastici. Il testo, caduto con il termine della legislatura, è stata riproposta dunque quest’anno.

Ma cosa intende questa proposta per competenze non cognitive? Proprio le competenze sociali, umane e psicologiche necessarie allo sviluppo della persona, quelle che in azienda chiamiamo “soft skill”. Prendendo a riferimento la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, potremmo indicarle come “le abilità che portano a comportamenti positivi e di adattamento, in grado di mettere l’individuo nella condizione di far fronte alle sfide che si impongono sul proprio percorso”. 

L’empatia, la flessibilità, la capacità di comunicare, di presentare le proprie idee o di gestire l’ansia o lo stress solo, sono ottimi esempi di cosa si intende per competenze non cognitive.  

La proposta di legge è, a nostro giudizio, molto valida. Oggi la nostra scuola è infatti centrata quasi esclusivamente sullo sviluppo di conoscenze (utili senza dubbio per sviluppare le capacità di ragionamento e di riflessione) ma non si preoccupa di quelle competenze “soft” che sono sempre più importanti nel mondo del lavoro. 

Perché investire nelle competenze non cognitive delle nuove generazioni

Investire nelle competenze non cognitive dei ragazzi e delle ragazze significa pertanto affermare il principio che tali abilità siano fondamentali per lo sviluppo dell’individuo e per il suo inserimento sociale. Rafforzare l’empatia, la capacità di relazionarsi con l’altro e le abilità di ragionamento è poi fondamentale per stimolare i giovani anche nel loro percorso di crescita professionale.  

Non dobbiamo dimenticare infatti che l’Italia è tra gli Stati europei con il più alto tasso di Neet – giovani che non studiano e non lavorano – i quali rappresentano il 25% della popolazione compresa tra i 15 e 34 anni. 

L’iniziativa legislativa, volta a integrare e potenziare i corsi di studio scolastici con le competenze non cognitive, aiuterebbe senza dubbio a ridurre il tasso di povertà educativa che oggi caratterizza il nostro Paese.

Occorre ricordare poi che le sfide imposte dalla trasformazione digitale richiedono il potenziamento di quelle caratteristiche squisitamente umane che, solo se valorizzate, potranno contrastare il pericolo della disoccupazione tecnologica indotta dall’intelligenza artificiale e paventata da ricerche e opinioni di numerosi studiosi. 

Lavorare sulle competenze non cognitive nel mondo della scuola è dunque, a nostro avviso, un’ottima strategia per favorire il pieno sviluppo personale dei nostri ragazzi e anche per offrire loro maggiori possibilità di occupazione.  

Un punto rimane aperto: saremo in grado di formare una classe docente capace di accogliere e vincere questa sfida?