Simon Sinek, autore di importanti saggi sulla comunicazione e sulla leadership, ha recentemente lanciato sui suoi social una riflessione interessante. Davvero “work hard, play hard” è la chiave del successo? Da un punto di vista professionale e personale, uno stile di vita che non lascia tempo di fermarsi a respirare e guardare dentro di sé non porta benefici di lunga durata, anzi.
“Work hard, play hard” è un detto diffuso da anni nella cultura statunitense e ha molte sfaccettature di significato, ma sostanzialmente fa riferimento a un lifestyle in cui lunghe ore di lavoro si alternano a momenti di forte svago.
“Play Ward, Work hard” per cosa?
Cerchiamo di affrontare questo slogan da vicino, chiedendoci fino a che punto può essere considerato uno sprone per risultare vincenti sul lavoro e nella vita. Come prima cosa dovremmo interrogarci sul significato di quel “work hard”, distinguendo però tra motivazione e stacanovismo nocivo. Intraprendenza e voglia di farcela talvolta si accompagnano necessariamente a serate e fine settimana davanti al computer. Questo però non significa accogliere a braccia aperte il burnout. A fronte di ore interminabili di lavoro, dovremmo fermarci un attimo e domandarci: ma “work hard” perché? Perché serve davvero o perché non riesco a farlo in minor tempo?
A questo punto, una sana autocritica dovrebbe spingerci a considerare che, forse, non siamo così infallibili e insostituibili e potremmo provare a ridurre il carico di lavoro. Ad esempio cercando di fidarci di più dei colaboratori e delegando parte delle attività. Ma anche una buona revisione dei nostri metodi e dei nostri processi potrebbe aiutarci a rendere più efficiente il tutto e a ridurre le ore di lavoro. Insomma, “work hard” non comporta necessariamente eccellenza di risultato.
Chi lo dice che la produttività si misura in base al tempo passato in ufficio?
Fino ad ora abbiamo inteso la prima parte dello slogan come se si identificasse con “working long hours”. Ma lavorare fino a sera tarda non equivale a lavorare bene. La questione piuttosto diventa promuovere una cultura del risultato atteso e avere maggiore consapevolezza che il metodo di lavoro è il fattore determinante.
Se il lavoro che svolgiamo consiste nel conseguire un risultato e non nel ripetere con diligenza qualcosa di già definito, forse la cosa più importante sta nel metodo. Quanto dipende dalla nostra preparazione? Quanto dalla ricerca di soluzioni originali o dalla fortuna? E ancora, quanto dipende dalla capacità di cogliere spunti dai colleghi o dalle circostanze? O dall’aiuto dei nostri collaboratori? Lavorare a lungo e duramente può essere paradossalmente la strada sbagliata, può portarci in vicoli ciechi e qualche volta addirittura al malessere fisico e psicologico.
Se poi il nostro lavoro consiste nel risolvere un problema, qual è il tempo corretto per risolverlo?
Forse potrei risolverlo in una frazione di secondo o forse mai. Autocostringermi in ufficio o davanti al pc finché non conquisto la soluzione potrebbe essere solo frustrante e infruttuoso. In questo caso poi gioca un ruolo essenziale anche la condizione mentale e fisica della persona. Ansia, tensione e affaticamento non sono proprio i compagni ideali se l’ostacolo da superare ci richiede creatività, iniziativa e un approccio proattivo. Ma nemmeno lo svago eccessivo e fine a se stesso può venirci in aiuto. È più probabile che la soluzione ci si delinei davanti agli occhi in un momento di quiete o di riflessione, magari in una situazione inaspettata e lontana dal problema stesso. In definitiva, un sano equilibrio tra vita professionale e personale giova non solo alla nostra psiche ma anche alla nostra produttività lavorativa. Proviamo quindi a leggere nel “play always” di Sinek un incentivo a trovare soddisfazione e divertimento nel lavoro e allo stesso tempo a coltivare hobby e interessi nella vita personale.
Work smarter!
Il concetto di work-life balance ci permette poi di introdurre un secondo spunto: carriera e vita privata non sono gli unici elementi che sui piatti della bilancia dovrebbero raggiungere un equilibrio. “Work hard” inteso come impegno e voglia di farcela dovrebbe avere lo stesso peso di “Work smart”. Quest’ultimo nell’accezione sì di smart working, ma anche in senso lato, come flessibilità oraria e di luogo. Se però lo si traduce in “lavoro solitario volto soltanto a fare e finire al più presto il mio compito”, allora non è “smart”. “Working smart” sprona invece ad un approccio attivo, creativo e innovativo, di collaborazione e messa in comune delle idee.
Lo slogan può quindi risultare motivante per alcune persone, ma concordiamo che alla lunga i risultati in termini di benessere, soddisfazione e produttività sono discutibili. Non significa stigmatizzare l’idea del duro lavoro, affatto: impegno, dedizione e voglia di migliorare sempre di più restano imprescindibili. Quello di Sinek è più un suggerimento ad assumere un atteggiamento equilibrato, positivo, di ascolto e di sperimentazione. E, aggiungiamo noi, un atteggiamento in cui idealmente “work” e “play” non rimangono su due livelli separati.
Laura Garozzo e Angelo Pasquarella – Projectland
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