La favola del serpente

«Una favola racconta che una volta a un uomo addormentato strisciò in bocca un serpente, gli si insinuò nello stomaco e vi si stabilì. Quando l’uomo si risvegliò ben presto capì con orrore che la sua precedente – libera! – vita era finita. D’ora innanzi la sua esistenza sarebbe dipesa interamente dall’arbitrio del serpente, che si dimostrò un essere dispotico e malvagio. Adesso l’uomo – sotto la minaccia di impensabili sofferenze – doveva eseguire ogni suo ordine. L’uomo non apparteneva più a se stesso, non poteva compiere alcun atto autonomo. La libera espressione della sua volontà era stata sostituita  dalla trista volontà di quel dispotico signore. La vita era diventata la più completa e assoluta schiavitù che si potesse immaginare…

Passò del tempo, la cui durata era moltiplicata dall’incubo della tragica esistenza del nostro eroe. Quand’ecco che un bel giorno, al risveglio, l’uomo sentì d’un tratto che il serpente non c’era più, era strisciato fuori, e lui, l’uomo, era di nuovo libero! Poteva di nuovo fare tutto quello che voleva! Dapprima l’uomo fu preso da una grande gioia, la gioia della liberazione. Però ben presto si rese conto di non sapere più cosa fare. Nel lungo periodo di dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente. Insieme col serpente gli era uscita fuori la sua stessa “essenza” nuova, acquisita nella cattività. Era svuotato. In luogo della libertà aveva trovato il vuoto…»  (Jurij Davydov, Il lavoro e la libertà, Torino: Einaudi, 1966,p. 15)

 

È possibile sopravvivere al serpente della gerarchia ed esser comunque felici?

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